(di Chiara Venuto) Da sei anni Carolina Capria, che è una scrittrice e sceneggiatrice, racconta sui social la letteratura femminile, ossia quella scritta da donne, attraverso il progetto ‘L’ha scritto una femmina’. Lo fa per amore dei libri, ma anche perché è “convinta che finché non attribuiremo alla voce delle donne lo stesso valore che ha quella degli uomini, sarà difficile combattere le discriminazioni e la violenza”. Lo spiega all’ANSA alla vigilia del 25 novembre e a qualche settimana dalla pubblicazione della sua ultima fatica, ‘Maestre. Disobbedire e ascoltare se stesse grazie a cinque scrittrici’, in uscita il 14 gennaio per HarperCollins. Un’opera che, da Jane Austen a Goliarda Sapienza, ricerca tra le pagine di alcune grandi autrici delle maestre o “voci amiche”, come ci rivela la stessa scrittrice.
“Il silenzio ha sempre fatto parte della vita delle donne, in moltissimi modi – riflette Capria -. Dal punto di vista politico, solo in tempi recenti le donne hanno cominciato a poter esprimere la loro volontà, con il diritto di voto, a scegliere per il loro corpo, con la legge sull’aborto, a opporsi a leggi che limitavano la loro libertà, come il cosiddetto ‘matrimonio riparatore’. Dal punto di vista culturale, l’opera delle donne è stata cancellata o oscurata, e solo in tempi recenti si sta cominciando a dare risalto al contributo che centinaia di donne hanno dato alla scienza, all’arte, alla letteratura, alla medicina”. Insomma, “la voce delle donne deve avere spazio – continua -, spazio che le spetta”.
Capria in questi anni non si è però limitata a parlare di ciò che hanno scritto altre donne. Fa anche divulgazione contro pregiudizi e discriminazioni di genere. Uno dei suoi progetti più toccanti è stato ‘Yes, all women’, attraverso cui ha raccolto centinaia di testimonianze di molestie e violenze, arrivatele da donne di tutta Italia. Una quantità di storie preoccupante che le ha confermato l’esistenza di “schemi ricorrenti”: spesso “gli abusi e le violenze si consumano laddove esiste la disparità di potere e la vittima è messa nella posizione di non poter riconoscere la violenza e denunciarla”.
Insomma, “continuiamo a ripetere alle donne che devono denunciare – commenta – ma non facciamo assolutamente niente perché abbiano la concreta possibilità di farlo e i mezzi per farlo”.
Tocca anche “ammettere che esiste il patriarcato”, prosegue, cosa che però “significa prendersi delle responsabilità, in quanto uomini innanzitutto, ma anche in quanto donne. Significa guardare ai propri comportamenti con uno sguardo diverso, analizzarli e cambiarli. Un lavoro non solo complesso ma anche, sulla carta, sconveniente. Ma finché non si guarderà in faccia il problema, finché non si capirà che siamo tutti dentro lo stesso sistema, non faremo dei passi avanti”.
Avvicinandoci a una data importante come la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, bisogna riflettere su ciò che non è ancora stato fatto.
Secondo l’autrice e divulgatrice “non ci stiamo occupando, almeno a livello istituzionale, di combattere la cultura della quale la violenza di genere è espressione. Bisognerebbe partire dall’educazione che bambine e bambini ricevono già dai primi anni di vita, e lavorare affinché nella loro mente non si insinuino tutti quegli stereotipi e pregiudizi che sono alla base della piramide della violenza di genere”.
Un’educazione all’affettività di cui si è parlato tanto dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. Fuori dalle scuole e dai contesti più formali, esistono dei testi che cercano di guidare la sensibilità dei più giovani, alcuni dei quali portano la firma proprio di Carolina Capria, come per i due volumi di ‘Femmina non è una parolaccia’ (Marietti Junior) e ‘Io dico no agli stereotipi. 10 parole per capire il mondo’ (Mondadori).
“Quello che ho capito in tanti anni di lavoro è che parlare con bambine e bambini di alcuni temi è molto semplice, quasi naturale – racconta – data la giovane età non possiedono le sovrastrutture che portano gli adulti a reiterare alcuni comportamenti credendoli corretti. Il concetto di consenso, per esempio, per i bambini è di facilissima intuizione. L’unica cosa che si deve fare con loro è proporgli delle questioni, farli riflettere su alcuni temi, poi fanno tutto da soli ed egregiamente”.