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Benvenuto Cellini nasce nel 1500, il 3 di novembre, a Firenze e muore nella stessa città il 14 febbraio del 1571, anno in cui la flotta cristiana sconfigge definitivamente i turchi a Lepanto. Figlio di un colto capomastro, si applica fin da giovane per apprendere il mestiere di orefice presso vari maestri d’arte a Bologna, Pisa e Roma.
Benvenuto a 16 anni viene esiliato da Firenze per una rissa. Vaga allora tra Bologna, Pisa, Roma e studia nelle botteghe orafe.
Il suo talento di artigiano interessa il papa Clemente VII che, nel 1529, lo nomina capo della bottega pontificia.
Due anni prima, nel 1527, sotto gli occhi dello stesso pontefice, Benvenuto combatte contro i Lanzichenecchi di Carlo V durante i nove mesi del sacco di Roma, e uccide il Conestabile di Borbone con un colpo di archibugio dalle mura di Castel Sant’Angelo.
Le opere di questo periodo (candelabri per il vescovo di Salamanca, un gioiello per la famiglia Chigi) sono andate perdute.
Intanto è protetto dal Cardinale Ippolito d’Este, così può passare solo qualche notte in prigione, dopo aver aggredito dal 1523 al 1530 tre persone, ucciso l’assassino di suo fratello, Cecchino, mercenario di Giovanni delle Bande Nere e subìto una condanna per sodomia.
Da una delle sue numerose fughe dalla legge nasce Cellini scultore di Bronzo.
Nel 1535 infatti è a Venezia, dove conosce Jacopo Sansovino e la tecnica della fusione.
Tornato a Roma viene arrestato nel 1538 con l’accusa di essersi impadronito di beni di proprietà del pontefice Clemente VII.
Grazie alla protezione del Cardinal Cornaro, evade qualche giorno dopo la cattura.
Nel 1540 è a Fontainebleau, alla corte di Francesco I, dove operano anche Rosso Fiorentino e Francesco Primaticcio i principali pittori della Scuola di Fontainebleau.
Tre anni dopo forgerà quel “monumento da tavola” che è la Saliera per il re cristianissimo Francesco.
Il 1554 lo vede lasciare in fretta la Francia (è indiziato per avere attentato le borse regali).
Nel 1554 a Firenze esegue il suo capolavoro: il “Perseo”, ubicato all’ombra della loggia dell’Orcagna dei Lanzi.
A Madrid scolpisce in un unico blocco marmoreo il “Cristo” per l’Escorial (1556-1557).
Nel 1558 inizia a scrivere “La Vita” che, per potenza narrativa, iperboli autoreferenziali e descrittive, rimane un topos della letteratura italiana che lo stesso Goethe tradusse in tedesco nel 1807.
Nel 1567 Benvenuto interrompe “La Vita” (rimasta così incompleta), per scrivere i “Trattati” dell’ “Orificeria” e della “Scultura”, esempi perfetti della capacità didattica e conoscenza tecnica dell’artista
Fra tanto studio e lavoro, trova il tempo di sposare Piera de’ Parigi e tre anni dopo, nel 1544, diventa padre di una bambina nata da una relazione con una modella.
Nel 1571, muore a Firenze ed è sepolto nella chiesa di Santa Maria Novella.
L’opera artistica e letteraria di Benvenuto Cellini è, da secoli, fissata nel ritratto che l’autore fa di sé nella Vita: è perciò assai difficile intessere un discorso critico senza mettere in primo piano, come eccezionali o almeno singolari, le qualità dell’uomo. Alle affermazioni di genialità che Benvenuto fa abbondantemente di sé va unita la coscienza della propria maestria che giustifica il dottrinarismo dei Trattati: per di più quanto riferirono i contemporanei sulla scontrosità e suscettibilità dell’artistatrovò buona esca nelle vivacissime parole che la pubblicazione dell’autobiografia suscitò nello spirito – per taluni aspetti, congeniale nel campo letterario – di Giuseppe Baretti. Si aggiunga la temperie romantica pronta a mettere in evidenza nell’opera dell’orefice e nella narrazione dello scrittore i modi schiettamente individuali d’un carattere.
Così Benvenuto finì per diventare un modello, anzi un eroe e forse anche un mito: era un po’, per intendersi, il rappresentante di un’Italia dei pugnali, dei veleni e degli intrighi quale poté vagheggiarla uno spirito lucidissimo eppur romanticamente inquieto come Stendhal. Non senza ragione il suo Fabrizio del Dongo evade – nella Chartreuse de Parme – dalla Torre Farnese come il Cellini aveva fatto da Castel Sant’Angelo!
Indubbiamente suggestionati dalla Vita, i critici non hanno sempre valorizzato la produzione dell’orafo e dello scultore. Come diceva il Kriegbaum, acuto scopritore del Narciso e dell’Apollo e Giacinto già creduti dispersi, «la fama universale dell’autobiografia di Benvenuto Cellini, tradotta da lungo tempo in tutte le lingue, ha fino ad oggi ostacolato la storiografia dell’arte nel tentativo di dare del Cellini artista quel giusto apprezzamento che egli merita». A sua volta, il Ragghianti fa notare la necessità di non usare come canone interpretativo il materiale psicologico della Vita, ed osserva: «L’immagine di sé che il Cellini ci ha lasciato in quel capolavoro che è la sua autobiografia, dove è inutile distinguere fra il reale e l’immaginario, perché in realtà si tratta di un auto-romanzo, l’immagine delle sue ire, delle sue violenze, delle sue gesta superbe, delle sue passioni sfrenate, delle sue estasi mistiche, del suo ingegno colossale, della sua originalità inaudita, della sua nobiltà eccellente, delle sue sofferenze da Cristo, delle sue gioie dionisiache, raccolta in una prosa che è tra le più creative della letteratura italiana, grava ed ha gravato ovviamente sull’immagine che dell’artista si può ottenere dall’analisi della sua opera figurativa. Quegli, che nella biografia accoltella, percuote, iracondamente urla, si vendica, compie prodezze di valore degne degli eroi plutarchiani, vive con imponenza alla pari dei monarchi e dei papi, grandeggia nella fortuna e nella sfortuna con uno spirito sempre eroico, favolosamente egocentrico, è in arte un sottilissimo, un raffinato, un estenuato, schivo da ogni “terribilità ” michelangiolesca, piuttosto uno squisitissimo melico rotto ad ogni flessibilità capillare del ritmo, della linea, della forma (ed ecco perché ancora nel Settecento lo amarono, intuitivamente, mentre l’Ottocento scorse più che tutto la sua magistralità , la perfezione anche esterna del suo fare). Ricco di nostalgie, inquieto e sentimentale, anche ambiguamente “decadente”: di fatti la sola opera non riuscita di lui e il programmatico Perseo, contraposto voluto a Michelangelo. Sensuale, carezzatore epidermico, vibrante per la scoperta di ascose e rare sensibilità , quasi strematore di ogni venustà della forma e di ogni pieghevolezza dell’oscillare ritmico; e con una cultura formidabile, una scelta perfino furba, un ricorso ad esperienze eccentriche o inapprezzate o scadute nel gusto, che lo allinea assieme al Pontormo. Contraddizione? Impossibilità di questo apparentemente insanabile contrasto fra vita e opera? Questo potrebbe sembrare a chi non sa sufficientemente distinguere fra le forme diverse dell’umanità e porre con la necessaria delicatezza i loro rapporti». Fatto il paragone col D’Annunzio per lo scarso rapporto fra le sue gesta e la poesia de La pioggia nel pineto, il Ragghianti afferma: «Chi ha spiegato o spiega l’opera con la Vita, o viceversa, non distinguendo non intende, con l’esito di restare estraneo o lontano dalla qualità specifica dell’arte celliniana». Con queste parole, che illustrano la posizione dell’artista figurativo, piace anche conchiudere questa nostra presentazione della Vita di Benvenuto nel quadro letterario del Cinquecento.