(di Paolo Petroni) HAN KANG, ‘L’ORA DI GRECO’ (ADELPHI, pp. 164 – 18,00 euro – Traduzione di Lia Iovenitti) – “È in grado di udire e leggere in modo distinto ogni singola parola, ma non riesce a schiudere le labbra e emettere alcun suono. È un silenzio freddo e rarefatto, come un’ombra privata del proprio corpo, come il tronco cavo di un albero morto, come lo spazio oscuro tra una meteora e l’altra”. È quel che accade alla protagonista di questo romanzo di Han Kang, scritto subito dopo il grande successo internazionale de ‘La vegetariana’, ed è assieme un esempio della sua prosa intensa, di suggestioni intime e visionarie con echi lirici che si direbbe (non conoscendo il coreano) molto ben resi dalla traduttrice Lia Iovenitti.
Questa donna spera e tenta di recuperare la parola dopo essere diventata improvvisamente muta per una serie di traumi, come le era già successo da adolescente, venti anni prima, sino all’incontro con una parola straniera, francese che, miracoloso grimaldello, l’aveva liberata dal suo silenzio opprimente.
Coprotagonista del romanzo è un uomo, docente di quella lingua antica in un istituto privato di Seul appena più grande di lei, anche lui alle prese con una menomazione, la perdita progressiva della vista dovuta in questo caso a una malattia genetica. L’incontro avviene perché lei (dei due non sarà mai detto il nome) ora prova a usare quella affascinante lingua morta nella speranza che questa volta sia una parola greca a ridarle voce.
Il racconto, nel suo potente e delicato procedere, sembra indagare come il vivere attuale possa essere d’aiuto al passato, a superarlo, e, nell’evidenziare l’importanza della comunicazione verbale, quanto conti sempre il rapporto con i nostri sensi, la presenza e coscienza del corpo, qui evidenziato nella ricerca di un dialogo e un’intimità tra una donna privata del suono, e un uomo della vista che della loro difficoltà hanno fatto una difesa nei confronti del mondo, della vita. Due esistenze del resto segnate dal rimpianto e dal dolore: lei ex bambina prodigio colpita dalla morte della madre e reduce da una storia finita col divorzio e una lunga battaglia legale persa per l’affidamento del figlio di sette anni, dopo la quale ogni giorno cammina sino a sfiancarsi del tutto, come per perdere coscienza; lui ricorda il suo passato di emigrante in Germania e soprattutto non riesce a liberarsi della memoria di una storia d’amore di allora per una ragazza sorda, figlia di un oculista, e mentre non vede più si aggrappa alla parola, a imparare a memoria testi e lezioni.
Sarà Platone con la ricchezza del suo eloquio retorico a funzionare pian piano da terapia e condurre i due a incontrarsi e superare i propri limiti e le proprie difese nel segno di Borges, di cui il professore all’inizio cita la frase che lo scrittore argentino, anche lui divenuto cieco, aveva voluto incisa sulla sua tomba: “C’era una spada tra noi”.
Alla fine il contatto della pelle, delle labbra annulla quella lama metaforica d’acciaio e grazie a un momento d’amore la narrazione come il dolore si scioglie in poesia, in versi: “da quell’istante, siamo poco a poco risaliti / appena raggiunta la superficie, / siamo stati trascinati a riva con violenza”.