(di Francesca Chiri) FRANCESCA COIN, LE GRANDI DIMISSIONI (Einaudi, pp.280, 17,50 euro). L’80% della popolazione occupata nel mondo “odia” il proprio lavoro: il dato era emerso già prima che esplodesse l’emergenza Covid da un sondaggio della Gallup, effettuato in 140 paesi. Poi è scoppiata la pandemia. Nel 2022 negli Stati Uniti ben oltre 50 milioni di persone hanno deciso di licenziarsi. In Italia le dimissioni volontarie hanno superato la soglia dei due milioni. Ma il dato “non tiene conto di chi rifiuta proposte di lavoro inadeguate fatte di paghe troppo basse, di orari troppo lunghi, di chi opta per il prepensionamento, di chi decide di non rinnovare un contratto a termine, di chi abbandona o lavoro in nero o come finta partita Iva” avverte Francesca Coin che con il suo libro offre una indispensabile lettura sul fenomeno mondiale dell’improvvisa fuga dal lavoro dipendente. L’esperienza del lockdown, del resto, non ha fatto altro che amplificare quella che era una tenenza già in atto, facendo emergere in modo ancora più feroce la crisi profonda di un modello di produzione che ormai non è più in grado di assicurare la sua sopravvivenza. È la conclusione a cui arriva il saggio di Coin che con la sua indagine osserva il fenomeno a livello planetario e come il risultato di centinaia di interviste che si concentrano sul caso italiano. Dove la crisi pandemica ha fatto emergere con chiarezza quello che non funziona più nel mondo del lavoro, con i “il sacrificio” dei lavoratori sanitari che incarna l’esempio di tutti i lavoratori essenziali, dagli operai ai rider e lavoratori della logistica, che hanno lavorato giorno e notte per garantire al resto della società di sopravvivere, senza un adeguato riconoscimento, economico e sociale. Un sacrificio non solo mai ripagato ma mai neppure risolto da una nuova organizzazione del lavoro, come dimostrano i casi dei medici e infermieri intervistati, fuggiti dal sistema sanitario italiano ormai portato al collasso dai turni massacranti, tre week-end al mese di guardia, organici decimati dai pensionamenti e blocco del turn-over, ferie negate. “Ho visto medici di 65 anni piangere di impotenza. Si impazziva” racconta Silvio, medico anestesista che al colmo di questo stato di malessere ha preso armi, bagagli e famiglia e si è trasferito a lavorare in Francia. “Arrivavo in ospedale e mi veniva la nausea, quasi vomitavo all’ingresso” racconta. Insomma un caso tipico di burnout che si somma alla “ferita morale” subita da tutti quei lavoratori che si sono prodigati durante la pandemia. E alla fuga dal lavoro nero tanto diffuso nella ristorazione, “quella voragine di sommerso attraverso la quale i datori di lavoro cercano di battere la competizione e di tagliare i costi, scaricandoli sul personale”. E addossando la colpa della carenza di manodopera non al lavoro malpagato, ai finti contratti part-time, alla giungla di contratti pirata, ma al reddito di cittadinanza. Tutti i casi riportati nel libro, infatti, dimostrano che l’aumento del turn-over volontario “non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza. Piuttosto – scrive Coin – ha a che vedere con una cultura del lavoro tossica, fatta di salari bassi e turni massacranti, di mobbing, bullismo, di scarsa sicurezza del e sul lavoro, di vessazioni e cultura antisindacale”. E’ un approccio che ha fatto da corollario ad un modello basato sulla produzione snella, sul “just in time”, sulla flessibilizzazione della forza lavoro e sull’outsourcing e che ora rischia di collassare. Portandosi dietro ragioni per “disertare” tutto il resto, oltre al sistema produttivo anche quello politico e di un sistema le cui leggi sono incapaci di offrire “un futuro diverso rispetto al collasso climatico e alla guerra sociale” in atto. Lo dimostrano le crescenti proteste e scioperi, dagli Stati Uniti alla Cina, passando per la Francia dove le piazze lo hanno già detto con forza: “Non c’è solo il lavoro nella vita”.