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Umberto Saba nacque a Trieste il 9 marzo 1883. E’ stato un poeta, scrittore e aforista italiano. La città di Trieste, fondamentale nella sua poetica, apparteneva allora all’Impero austro-ungarico.
Egli fu autore di una rivoluzione quasi inconsapevole. In un articolo del 1911 intitolato Quello che resta da fare ai poeti, inviato alla rivista fiorentina “La Voce” e respinto, pubblicato solo dopo la sua morte, dichiara un vero e proprio manifesto di poetica. Secondo Saba bisogna fare una poesia “onesta“, cioè capace di esprimere con sincerità e senza esagerazioni la condizione esistenziale dell’uomo al fine di rappresentare la realtà quotidiana e non la realtà straordinaria. Contrappone così due autori come Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio, quest’ultimo poeta disonesto che esagera fingendo passioni che non prova al fine di ottenere una strofa più bella, mentre Manzoni poeta onesto che non dice mai una parola che non corrisponda a ciò che pensa e sente dentro di sé, per non ingannare il lettore.
L’infanzia di Umberto Saba, pseudonimo di Umberto Poli, fu difficile e segnata dai traumi. Sua madre Rachele era ebrea; suo padre, Ugo Edoardo Poli, si convertì all’ebraismo in vista del matrimonio, ma prima della nascita del figlio abbandonò la famiglia rinnegando la nuova religione. Umberto crebbe così senza padre e venne affidato alle cure di una nutrice slovena chiamata “Peppa”. Solo quando compì tre anni, la madre lo riprese con sé, provocando nel piccolo il trauma dovuto al distacco dall’amata balia. La fine di un periodo sereno portò ad un’adolescenza malinconica in cui Umberto visse con la madre, donna severa che gli impose un’educazione repressiva. Tutti questi elementi aprirono nella psiche del poeta delle lacerazioni insanabili, innescando la nevrosi che lo accompagnerà tutta la vita. In questo contesto si inserisce l’episodio dell’esperienza omosessuale rievocata anni dopo nel romanzo Ernesto.
Nel 1903 si trasferì a Pisa per frequentare l’università , ma presto esplose la sua nevrosi che portava con sé sin dall’infanzia. Rientrato a Trieste, nel 1909 sposò Lina, con cui aveva instaurato un rapporto intenso ma conflittuale. Un anno più tardi nacque la figlia Linuccia. Intanto pubblicò a proprie spese il primo libro, Poesie, in cui si firmò per la prima volta con lo pseudonimo di Umberto Saba, ispirato dalla cara balia, Peppa Sabaz. Datata 1912 è la sua prima raccolta, intitolata Coi miei occhi.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale fu chiamato alle armi. Risale a questo periodo la lettura di autori come Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud, che egli scoprì in anticipo rispetto agli altri intellettuali italiani.
Dopo la guerra acquistò a Trieste una libreria antiquaria che gestì per buona parte della vita. Uscì nel 1921 la prima edizione del Canzoniere, la sua raccolta più nota in cui è inserita l’intera produzione poetica. Scegliendo questo titolo, Saba si ricollegò alla grande tradizione lirica italiana, in particolare al capolavoro di Petrarca. Si ispirò inoltre a Dante e Giacomo Leopardi, ma anche al linguaggio del melodramma, in particolare ai libretti di Giuseppe Verdi.
Durante la Seconda guerra mondiale visse un nuovo periodo di angoscia e inquietudine, perseguitato per la promulgazione delle leggi razziali. Costretto a lasciare Trieste, visse a Parigi, Milano, Roma e Firenze, confortato qui dall’amicizia con Eugenio Montale.
Il poeta Umberto Saba muore a Gorizia il 25 agosto 1957.
Ho attraversata tutta la città .
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città .
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.