Ecco La scatola delle lettere, il testo inedito sulla memoria e le radici che l’americana Temim Fruchter, scrittrice ebrea queer non binaria antisionista, ha scritto per il Festival Letterature di Roma e con cui chiuderà la serata dell’11 luglio allo Stadio Palatino. La scrittrice è in Italia con il suo libro d’esordio ‘Città che ride’ pubblicato da Mercurio.
Proponiamo il testo in anteprima nella traduzione di Gabriella Tonoli.
“Mi trovavo a Ropczyce, in Polonia, il luogo dove erano nati e si erano innamorati i miei bisnonni materni. Avevamo viaggiato con un furgone a noleggio, sfrecciando lungo le autostrade polacche in paesaggi sempre più rurali, e seguendo cartelli che recitavano ‘Ropczyce’ – il nome il polacco del piccolo villaggio un tempo ebraico da cui provenivano i miei bisnonni, un nome che comunque riconoscevo. Quando alla fine i cartelli annunciarono che eravamo arrivati, accostammo e ci affrettammo a scendere dal furgone. Ed eccoci lì.
Uso il plurale perché ero con gli elementi del gruppo indie rock per cui suonavo la batteria da diversi anni. Era il 2012 ed eravamo in tour in Europa, ancora su di giri dal concerto della sera prima a Varsavia, dopo diverse settimane di serate in Germania. Il nostro arrivo a Varsavia – in una notte fredda d’autunno in un locale che traboccava di risate e buon cibo – mi era parso, con il rischio di cadere nel cliché, una specie di ritorno a casa. Come se ci fosse qualcosa di familiare: era decisamente un luogo diverso da qualsiasi altro visitato prima.
La folla era più rumorosa, calda, e a me più leggibile.
La mia gente, pensai. E in un certo senso lo era, ma anche no.
Ovviamente, stavo romanzando. Proiettando. Non è davvero familiare, Temim, mi dissi. Il fatto che i tuoi bisnonni sono nati a diverse ORE da qui non ti dà il diritto di considerare Varsavia familiare. Ma l’immaginazione non s’imbriglia, e la memoria intergenerazionale è misteriosa; per di più, non sempre abbiamo il controllo su questo genere di cose. Anche solo un minimo, sentivo di trovarmi in un luogo in cui poter essere riconosciuta. Un luogo dove ero già stata.
La sensazione si fece più intensa al nostro arrivo a Ropczyce.
Lì in piedi, davanti a un panorama che era solo una strada e campi e alberi, mi vennero i brividi, anche se non faceva freddo. Quel luogo era carico, pensai. Di fantasmi, di presenze, di gente; di un’intera comunità che un tempo era stata lì e poi era stata sterminata ma senza mai essersene andata davvero via.
Il cielo ne era saturo. La terra gravida. Lì, ferma in quel punto, sentivo di avere compagnia.
Ma poi affiorò anche un tipo di sensazione del tutto diversa.
Soltanto qualche minuto dopo, infatti, provai la sensazione esattamente opposta. Lì non c’era nulla, e qualsiasi cosa ci fosse stato un tempo non era nulla su cui io avessi un qualche diritto. Un tempo c’era stata una cultura, una vita; giornate piene di eventi atmosferici lamenti e segreti e tenerezze e battaglie e canzoni, e ora invece c’era erba marrone e una strada, nient’altro. Stai proiettando di nuovo, mi dissi. Stai cercando di vedere qualcosa che non c’è. Di farti accompagnare da chi è scomparso da questo luogo molto tempo fa. Sei solo una straniera con fantasie ricercate che dovresti lasciar andare.
Due sensazioni simultanee: una, che il luogo fosse affollato; lo sentivo a fior di pelle, la presenza spettrale della mia gente era innegabile. E l’altra, che quel posto fosse semplicemente vuoto. Un luogo che non somigliava più neanche lontanamente a ciò che era stato e io, ora straniera, non avrei dovuto romanzare.È questa ambivalenza, una combinazione di sensazioni disorientanti ma feconde, ad aver in parte animato il mio primo romanzo, Città che ride. Ho cominciato a descrivere il libro come una storia speculativa queer di una famiglia ebrea dell’Europa orientale. Della mia famiglia. Lo dico da mesi ormai – in interviste, agli amici, e a me stessa. Ma volevo cogliere quest’occasione per elaborare un po’ meglio questo concetto. Che cosa intendo dire con storia speculativa? E, più nello specifico, che cosa intendo dire con una storia speculativa di una famiglia queer?
Partiamo dalla memoria.
Scrivere un’opera di finzione invece che un memoir mi attira per una serie di ragioni ed una di queste è che ho una memoria straordinariamente imperfetta. La smemoratezza imperversa nella mia famiglia. Siamo in sei – i miei genitori e i miei fratelli ed io –, abbiamo una pletora di altre abilità, ma nulla che assomigli lontanamente a una memoria fotografica (o neanche alla vaga capacità di ricordare dove abbiamo messo il portafogli o le chiavi o quella pila di calzini appena lavati).
La memoria, però, non è un requisito in caso di speculazione feconda. Diversi anni fa, io e mia madre stavamo guardando una foto della mia nonna materna ventenne. Nell’immagine, mia nonna è una vera bellezza, vestita in modo impeccabile con un pizzico di vecchio glamour hollywoodiano, le labbra truccate e ammiccanti, come se avesse un segreto che non svelerà mai. Rimasi subito ipnotizzata da quella fotografia, e non solo per il modo in cui l’obiettivo sembra aver catturato alla perfezione la malizia e il carisma della mia enigmatica nonna da giovane. Era anche che, da femme queer – da persona che si aggira per il mondo con abiti spettacolosi e abbondanti, sempre incline alla malizia queer e agli eccessi – avevo riconosciuto qualcosa di me in lei, e qualcosa di lei in me. Quando guardavo furtiva quella sua immagine, mi sembrava una femme queer di un altro mondo, fuori dal tempo. È indubbio che esistano e siano andate perdutemolte storie e segreti su mia nonna. Ma in quel momento – e soltanto per un momento – lei prese vita senza bisogno di miei ricordi o di particolari talenti per il dettaglio. Bastava solo la mia immaginazione queer.
Quel riconoscimento che avvertii in modo viscerale mi aprì una specie di porta, e oltre questa porta c’era un universo adiacente dove le donne che mi avevano preceduto erano queer come me. Mia nonna e la mia bisnonna prima di lei. Un universo in cui quella queerness, come in una specie di corsa a precipizio generazionale, aveva attraversato la mia linea di discendenza matrilineare, per accumulare solo velocità. Sia chiaro: con ciò non voglio dire che qualcuno dei miei avi sia stato davvero queer. Comunque, se lo fossero stati, è molto probabile che non l’avrei mai saputo.
Se la memoria non è un requisito per la speculazione, allora non lo è neanche, a maggior ragione, un archivio esaustivo. Dopotutto sappiamo che gli archivi delle vite queer e trans e le loro storie sono nella migliore delle ipotesi incompleti. Irregolari e pieni di voragini, sommersi e lacunosi, cancellati e distorti, nascosti e frankensteinizzati. Frammenti di vite queer del passato appaiono più come indizi che vere e proprie vicende o storie. In moltissimi casi, i custodi degli archivi con la A maiuscola – degli archivi pubblici, delle vicende più ampie della storia, o anche solo degli archivi di famiglia– non volevano che nessuno vedesse ciò che sarebbe potuto emergere da scatole di foto o lettere o testimonianze di famiglia. Non volevano conservare prove di quanto consideravano devianza o indecenza. Volevano relegarle ai margini, insieme alle persone protagoniste di queste storie. Nonni e bisnonni vivono intere vite in seguito riaggiustate, quando i particolari più succosi e che straziano più il cuore a volte sfuggono del tutto ai loro discendenti.Noi della comunità queer contemporanea, allora, siamo necessariamente dei segugi. Nella maggior parte dei casi, non troveremo le prove concrete di cui siamo alla disperata ricerca. Che in tanti desideriamo. Con un mio buon amico abbiamo un’espressione quando vogliamo riferirci a questo desiderio: parliamo della scatola di lettere. Quel fascio ordinato di prove epistolari che tanto vorremmo trovare un giorno in un angolo di una soffitta, che ci dimostri che uno dei nostri avi intratteneva una ricca e giocosa corrispondenza queer, dandoci così una chiave di lettura ai misteri di famiglia e facendo luce nelle nostre vite, nei nostri Io e desideri queer. Di fatto, però, in genere questa ipotetica scatola di lettere non esiste. Di fatto, la queerness non è particolarmente radicata nelle testimonianze. Come l’amato teorico queer José Esteban Munoz scrive in Cruising Utopia. L’altrove e l’allora della futurità queer: ‘La chiave per queerizzare un reperto – intendo i modi in cui proviamo che una cosa è queer o la leggiamo come queer – è legarlo indissolubilmente al concetto di effimero. Pensate l’effimero come una traccia, una rimanenza, ciò che resta, sospeso nell’aria come un rumore’.
Questa fotografia di mia nonna, allora, era un effimero. Un accenno, una traccia, un rumore. C’era qualcosa in quella sua qualità da starletta, un’esuberanza vitale che sentivo precorrere le mie sensibilità queer. Era una proiezione voluta da me? Certo. Ma se c’erano echi da un passato così lontano, volevo che comunicassero con me. E poi, alla fine, nel proseguire le mie speculazioni, mi domandavo: e se potessero parlarmi, questi echi? E se mi stessero parlando e sono io che non do loro ascolto? E se in realtà fossimo circondati da tracce e rumori ed effimeri di storie queer ma non siamo sintonizzati sulle frequenze giuste? Forse potevo visitare un luogo dove avrei sentito tutto più chiaramente. E forse questo luogo era il mondo della letteratura. Questa era la storia che volevo scrivere, ne ero sicura. La storia che nessuna storia dei fatti poteva darmi.
Fortunatamente, due delle fonti che amo di più – il folklore ebraico e il senso di possibilità e futurità queer che ho coltivato con l’aiuto di pensatori queer come Munoz – sono strumenti preziosi a cui ricorrere per questo tipo di speculazione. Mi permettevano di immaginare ricchezze, anche con quanto è stato davvero cancellato dalla storiadelle linee ancestrali ebraiche, queer e trans. Non mi davano solo una struttura, ma una specie di permesso. Il permesso di rimettermi in contatto con la mia storia e cercare di sentire che anch’essa si metteva in contatto con me, anche se non ero certa potesse.
Ho avuto grandi modelli per questo genere di scrittura. Tra i miei preferiti Confession of the Fox di Jordy Rosenberg, romanzo che racconta sotto una luce trans e de-coloniale la storia vera di Jack Sheppard, criminale britannico evaso dal carcere nel Settecento. Rosenberg segue indizi effimeri – resoconti storici che descrivono Sheppard come effeminato o flessuoso e ‘non conforme’ dal punto di vista del genere – e scrive un romanzo in cui Sheppard è, di fatto, non solo un uomo trans, ma un uomo trans il cui corpo e l’Io esistono in opposizione ai sistemi carcerari, e che incarna una bellissima e ingarbugliata vicenda di emancipazione, solidarietà, esplicito desiderio queer, e un senso di collettività vasto che va al di là del tempo.
Potrei scrivere un articolo intero su tutto ciò che amo di questo libro, ma una delle cose che apprezzo davvero è come a volte Rosenberg ha parlato del libro, del potenziale che ha una storia speculativa, soprattutto nel raggiungere storie sovversive che sono state nascoste dalle testimonianze dominanti. In un’intervista sul libro, Rosenberg dice: ‘il modo in cui necessariamente frughiamo senza indizi in questo passato inconoscibile e il modo in cui, anche se non possiamo conoscere il passato in modo esaustivo, il passato esercita la sua forza su di noi’.
Amo l’idea di un passato collettivo inconoscibile che esercita la sua forza su di me. E ho amato lasciarglielo fare.
Nel 2018 ho deciso di tornare a Varsavia per studiare yiddish e riflettere ancora sul romanzo. Anche se descrivo il libro come speculativo, ho condotto alcune ricerche storiche, soprattutto su Varsavia e Ropshitz, e sull’affascinante scrittore ebreo russo S. An-ski, che figura in primo piano nel romanzo.L’esperienza di ritorno è stata addirittura una magia. Varsavia, naturalmente, era un tempo un centro urbano per ebrei polacchi che venivano da ogni dove, un luogo ricco di cultura ebraica, immaginazione e resistenza, un luogo dove vive e prospera ancora una piccola comunità ebraica. Per tutte queste ragioni – e con il ricordo vivido del calore provato nel 2012 – tornare a Varsavia mi ha fatto stranamente sentire come tornare a casa. Di nuovo.
Ancora una volta, non ero molto più che una turista. Prima di tutto, non parlavo polacco. Ho camminato fino allo sfinimento, osservato il cielo, cercato di vedere quanto riuscivo a vedere. Ho passato il tempo seduta a tavolini di bar a guardare la gente. Sono andata a una proiezione porno queer del burlesque femminista e ho provato a flirtare. Ho prestato attenzione ai minimi particolari: i musi dei cani, le fantasie sui vestiti della gente, i colori vivaci dei cartelli e delle porte di casa. È stato mortificante capire che, se è vero che questo luogo è la patria di parte della mia cultura, e se è vero che questa regione è la patria della mia famiglia, non è un luogo che io conosco bene. È un luogo che ho visitato e che molto rapidamente ho cominciato ad amare. Spero di tornarci.
Città che ride è nato da tutte queste esperienze. In parte, è un racconto di come ho provato a conoscere il luogo di origine dei miei avi. In parte è un racconto della mia curiosità, di come ho provato ad avvicinarmi a una cultura che era scomparsa ma allo stesso tempo ancora lì, il passato di Varsavia adagiato direttamente sul suo presente. In parte è il mio tentativo di impiegare le mie tradizioni folkloriche ebraiche per onorare il villaggio di Ropshitz passando per invenzione e inferenza, perché le sue leggende e storie sono da tempo perdute. tempo perdute. E in parte è il mio tentativo di provare a raggiungere la mia linea ancestrale attraverso lo storytelling, qualcosa che non è proprio raggiungibile ma allo stesso tempo palpabilmente ancora lì. Se ne sente ancora il riverbero. In fondo, l’energia non sparisce. Cambia solo forma”.
@Temim Fruchter2024