Testimonianza sconvolgente sull’inferno dei Lager, libro della dignità e dell’abiezione dell’uomo di fronte allo sterminio di massa, “Se questo è un uomo” è un capolavoro letterario di una misura, di una compostezza già classiche. Ma non tutti sanno che la casa editrice Einaudi si rifiutò di pubblicarlo per ben due volte.
1947. Dopo due anni di scrittura febbrile, Primo Levi si decide a consegnare il manoscritto “Se questo è un uomo” alla casa editrice torinese Einaudi. Poco tempo dopo arriva però una lettera che, con tono perentorio e professionale, comunicava all’autore che il manoscritto non era adatto alla pubblicazione. Ma la cosa sorprendente era chi si celava dietro a quella anonima lettera: un nome noto nella letteratura italiana, una scrittrice raffinata e di origine ebraica.
Anni dopo il rifiuto della sua pubblicazione, si scoprì che fu Natalia Ginzburg a dire di no a “Se questo è un uomo”. Fu lo stesso Giulio Einaudi a confermarlo in un’intervista tv:
È stata Natalia Ginzburg a leggerlo. Il ricordo del nazismo, delle persecuzioni, della Shoah era ancora troppo bruciante. Natalia aveva perso il marito poco tempo prima, nel gennaio del 1944
In seguito, quando la faccenda divenne ormai nota, la Ginzburg si difese dichiarando che il primo rifiuto arrivò da Cesare Pavese, all’epoca editor di punta della casa editrice.
Nella sua testimonianza, Ginzburg riferì che Pavese sostenne che erano già presenti troppi libri sui campi di concentramento in circolazione e che sarebbe stato meglio aspettare del tempo prima di pubblicarne un altro. Dopo una lettura veloce e disinteressata, Ginzburg gli diede ragione, salvo poi auto-accusarsi anni dopo affermando: “Siamo stati dei colpevoli imbecilli.”
Furono dunque due illustri autori a dire “no” all’autobiografia di Levi, un libro-capolavoro divenuto un’opera di culto nella narrativa italiana. Fortunatamente, però, Primo Levi decise di andare avanti e di non fermarsi a quel rifiuto.
Primo Levi trovava in quel libro di testimonianza sofferta una nuova ragione di vita. Vivere per raccontare, farsi testimone della Storia. Il rifiuto di Einaudi quindi gli dispiacque, ma non lo scalfì più di tanto.
Levi consegnò il manoscritto a un amico, Silvio Ortona, un ebreo che lavorava per un giornale comunista di Vercelli. I primi cinque capitoli di Se questo è un uomo comparvero quindi su un giornale vercellese, L’Amico del Popolo, con il primo titolo scelto dall’autore Sul fondo. Furono i cittadini della città di Vercelli dunque i primi lettori di Se questo è un uomo.
L’autore si rivolse in seguito alla piccola casa editrice torinese De Silva, diretta da Franco Antonicelli. Antonicelli accettò il manoscritto, vi vide ciò che evidentemente Ginzburg e Pavese non vi avevano visto, ma decise di cambiargli il titolo.
Al posto del titolo originale I sommersi e i salvati, Antonicelli decise di optare per Se questo è un uomo, suggerito da Renato Zorzi. Il titolo riprendeva inoltre la prima riga di Shemà, la poesia scritta da Primo Levi e posta in apertura del romanzo, che rimandava alla più celebre preghiera della liturgia ebraica.
Fu stampato in una tiratura limitata di 2500 copie nell’autunno del 1947. Non fu un successo immediato, ma riscontrò il favore di Italo Calvino che ne scrisse una recensione positiva su L’Unità, definendolo “il più bel libro testimonianza sulla Shoah“.
Tuttavia, delle prime 2500 copie molte rimasero invendute. Le oltre 600 copie rimaste invendute vennero spedite in un magazzino di libri invenduti a Firenze e andarono perse nell’alluvione del ’66.
Ma nonostante i pareri positivi della critica, Einaudi si rifiutò nuovamente di pubblicare l’opera di Levi. Solo 10 anni dopo, nel 1958, la casa editrice diede a Se questo è un uomo una chance e lo pubblicò, con notevoli integrazioni e varianti, inserendolo nella collana I saggi.
Nella nuova prefazione, Primo Levi riassunse così la difficile storia editoriale del suo romanzo autobiografico:
Se questo è un uomo è un libro di dimensioni modeste, ma, come un animale nomade, ormai da quarant’anni si lascia dietro una traccia lunga e intricata.
Nel libro-intervista Colloquio con Giulio Einaudi di Severino Cesari, l’editore torinese giustifica così la travagliata pubblicazione del capolavoro di Primo Levi:
Forse in quel tempo di aspro dopoguerra la gente non aveva molto desiderio di tornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati.
Stampato nel ’58 in 2000 copie, l’autobiografia fu ristampata successivamente nel ’60 con altre 2000 copie e successivamente nel ’63. Dopo il 1963 il libro iniziò a vendere 25.000 copie l’anno mantenendo un’alta percentuale di vendite.
Giulio Einaudi commentò così il successo dell’opera di Levi, in un’intervista del ’91 con Severino Cesari:
Un successo dovuto alla collocazione del libro in una collana di narrativa, dove pubblicammo contemporaneamente La tregua, il racconto picaresco del ritorno da Auschwitz, accolto subito con favore dal pubblico, che accese l’interesse per lo scrittore.
Forse con queste parole Giulio Einaudi voleva in parte motivare la mancata pubblicazione del libro molti anni prima e così auto-assolversi da una presunta mancanza di fiuto editoriale. In ogni caso la controversa storia della pubblicazione di Se questo è un uomo di Primo Levi dimostra che l’editoria ha le sue ragioni, che spesso chi scrive non conosce. Ragioni che, come molti altri fatti della vita, si legano strettamente ai ritmi alterni della fortuna e del fato.
La riprova che alla domanda: “cosa rende un libro un capolavoro?” non esiste mai una risposta certa.